Recensione

a cura di

Gianfranco Ribaldone

 

Franco Zaio, A l'è n'darmagi, Associazione Culturale San Giacomo, Lu Monferrato 2006

Per le vie della città in un’allegra corsa; poi guardavo verso l’alto, tra le cimase delle case cercavo il blu o il grigio cenerino. Salivano i pensieri fino a bucare il cielo lassù e si tingevano di nevoso àere o di pallido sole o di vivo turchino: pensieri di un bambino, colorati come le stagioni.

Oggi, a distanza di molti anni, il bambino dentro non è cresciuto (qualcuno direbbe che ha fallito la crescita). Anzi è tornato ancora più indietro, a quello stadio prenatale quando si odono le parole in variopinti toni e nemmeno si sospetta che dietro ad esse ci siano altre presenze.

Non stupirti dunque se ti dico che amo le parole quando si liberano fissandosi sulla carta come la luce sulla pellicola, a poco a poco divenendo esse stesse oggetto: l’appunto scritto che non fu involato dal tempo, il diario che non si chiuse su se stesso, il contratto rogato dallo stilo del notaio, il verso in cui il poeta cercò l’attimo.

Così il nostro dialetto. Passava attraverso le generazioni, ora è lui ad essere passato. L’amico Franco Zaio umilmente ha raccolto le parole che a Lu hanno forato i secoli, aghi colorati appuntati ad un gesto o ad un grido, ad un mestiere o ad un’emozione, ad un’ora del tempo o ad una striscia di terra, parole trasudanti ancora un po’ di vita e un po’ di materia. Ha udito il loro suono fino al silenzio, poi secondo un canone le ha stese in segno nero sulla bianca pagina, un segno grafico. E’ nata la grammatica del nostro dialetto.

E ancora cerco tra le cimase delle case il blu o il grigio cenerino. E ancora salgono i pensieri fino al cielo lassù, ma… che succede? Il bambino è cresciuto e improvvisamente ingrigito, nello specchio del cielo più non si colorano le immagini del futuro suo. Il tempo passa, le persone passano, le cose passano; solo la parola rimane.

Occhi di bambini specchianti un cielo che noi non vedremo, frammenti di azzurro e cose ora spregiate che vivranno una vita che noi non conosciamo. Un dialetto che s’imparerà come s’impara a cantare, un dialetto dei tempi remoti a cui ci si avvicinerà come ci si avvicina alle cose belle. Non perché sia dialetto, ma perché è parola.   

Parola non più usata, solo sillabata e amata: una lingua nuova.